marzo 26, 2009

Il naso all’insù, la bocca leggermente aperta, il polpastrello dell’indice destro sul labbro inferiore: a vederlo così, Antonio Bandinu sembrava un bambino. Fissava una macchia d’umiditàsopra la cassettiera di ciliegio, nel soffitto della camera da letto.
“Dovrò chiamare un muratore”, disse fra sé e sé. Poi scosse la testa e lentamente si spostò nella cucina. Qui trovò il pacchetto delle sigarette ma con grande disappunto si accorse che era vuoto.
Faceva freddo. Lo stesso vento che da giorni imperversava sull’isola e che aveva danneggiato le tegole, permettendo alla pioggia di infiltrarsi, continuava o soffiare impetuoso da nord. Pensò che non era il caso di uscire a quell’ora della notte per acquistare un altro pacchetto. Allora si mise a frugare nei cassetti, a spostare i libri, a passare in rassegna tutte le tasche delle giacche e dei giubbotti che non indossava da molto tempo. E alla fine una sigaretta la trovò, proprio in fondo alla tasca bucata di un vecchio cappotto. Riuscì a tirarla fuori senza spezzarla e quel gesto gli sembrò la migliore conquista della giornata . La lisciò con soddisfazione e dopo averla accesa andò a sedersi sul letto, nel punto in cui, comodamente seduto, poteva di nuovo guardare la macchia.
Gli era sempre piaciuto guardare le macchie. Le macchie e le nuvole erano ancora (come quando era bambino) i luoghi dei suoi incantamenti. Per questo la sua espressione tornò come prima, lo stesso sguardo di meraviglia e la stessa fissità, interrotta solo per qualche istante dal fumo che gli andava negli occhi.
Vide lo svolazzo di una gonna nella giravolta di un ballo, il corpo sinuoso di una giovane donna, i piedi di un uomo puntati bene a terra nella rotazione dello stesso ballo. Vide i tasti della fisarmonica, il mantice che si gonfiava, le dita callose di un ragazzo. E poi il fieno giallo, il sole tagliato a metà, il sudore sulla fronte di un vecchio,  una linea lunga di formiche. Infine vide una nuvola, solitaria e bianca, che si muoveva appena, vicino al sole. E dentro la nuvola un brigantino. O forse era un libro col disegno di una barca.
“E’ come l’Aleph, posso vedere ogni cosa”.
Aspirò con soddisfazione l’ultima boccata e per spegnere la sigaretta allungò il braccio fino al posacenere sul comodino. Poi, prima di togliersi le scarpe, tornò con lo sguardo alla macchia e in quel preciso momento, mentre cercava di mettere a fuoco i contorni umidi del disegno, ebbe il primo dei turbamenti. Gli sembrò che la chiazza fosse diventata improvvisamente più scura e un po’ più grande. Chiuse gli occhi e si concentrò sull’ultima immagine che aveva visto, le vele gonfie del brigantino. Ma adesso avvertiva anche un lieve capogiro e una sensazione di irrealtà del tutto nuova, come se quel momento facesse parte di un sogno o di una condizione già vissuta in un altro luogo, molto tempo prima. Quando riaprì le palpebre, la macchia era diventata ancora più scura.
Tentò di entrarci  dentro, di perdersi in un altro caleidoscopio, ma, nonostante lo sforzo, riuscì a vedere solo una forma: un cane, magro e spelacchiato, che continuava a guardarlo dalle pupille gialle e che digrignava i denti in una specie di sorriso beffardo.
Riuscì a sopportare la visione per qualche secondo. Poi, in fretta, si spogliò, si infilò sotto le coperte e spense la luce.
Qualche ora più tardi, Antonio Bandinu fu svegliato dalle folate di vento che facevano sbattere le imposte dei vicini. Le lancette luminescenti della sveglia a forma di cuore  che la madre gli aveva regalato segnavano le quattro, poteva contare su altre tre ore di sonno. Si girò sull’altro fianco e tentò di riaddormentarsi. Proprio allora però sentì un altro rumore, il suono di una goccia che cadeva sulla cassettiera. Poi un’altra e un’altra ancora, una ogni cinque secondi. Accese la luce e guardò la macchia. Il cemento del soffitto si era gonfiato, formando una specie di protuberanza gelatinosa dalla forma indefinita. Un liquido scuro e denso gocciolava con regolarità, dopo aver formato un filamento viscoso al centro della sporgenza. Fu allora che Antonio Bandinu pensò per la prima volta ai cani di Cubber. E fu allora che le sue mani cominciarono a tremare.
Uscì dalla stanza da letto, si fece un caffé e, seduto in cucina, aspettò le prime luci dell’alba. Senza neanche togliersi il pigiama, si mise ai piedi le scarpe da tracking. Uscì nella terrazza e da lì, aiutandosi con una scaletta di legno, si arrampicò sul tetto. Calcolò rapidamente il punto che voleva esplorare. Proprio lì, in corrispondenza della cassettiera di ciliegio, alcune tegole erano spaccate.
In un ultimo sforzo, muovendosi quando il maestrale gli dava tregua, cercò di spostarsi nella direzione prescelta. Fece appena in tempo a vedere i graffi su uno dei coppi, un ciuffo di peli attaccato ai licheni, un’unghia di cane staccata. Poi il vento lo tradì.
Più tardi, in tutta la città, si parlò della solitudine di Antonio Bandinu. Qualcuno disse che non era giusto.

marzo 7, 2009

Giochiamo a carte. E’ stata un’idea di Bulgaria: oggi mi sento infelice, giochiamo a scalaquaranta.
Non lo facevamo da anni, l’ultima volta era successo in ospedale, quando Bulgaria era stato operato di appendicite.
– Ma non sarà un po’ noioso?
– Tanto che vuoi fare?
– Potremmo uscire, per esempio.
– Stasera inizia la festa della donna.
– Appunto.
– Appunto cosa?
– Boh, non lo so. Giochiamo a carte.
Polanca le mischia e io taglio il mazzo. Non c’è storia, le prime due mani le vince Polanca in un baleno.
– Hai il culo più grande della lavatrice.
– Vabbè, Bulgarì, ma tu sei fortunato in amore.
Bulgaria si adombra. Poi, mentre distribuisce l’altro giro, dice vaffanculo.

Avevo ragione io, dopo venti minuti siamo stufi marci.

– E allora che si fa?
– Niente, non facciamo niente, ognuno si tenga la sua noia. Anzi, io me ne vado ad ascoltare un po’ di musica.
Mi trasferisco nella mia stanza e mi metto le cuffie. Lester Young è un toccasana in pomeriggi come questo. Loro due rimangono in cucina. Ogni tanto sento che ridono e sono contento che Bulgaria abbia ritrovato il buon umore.
Dopo qualche minuto bussano alla porta. Dico avanti e me li vedo comparire, conciati in modo stravagante. Polanca ha indossato una tuta da lavoro, di quelle blu che usiamo quando imbianchiamo le pareti di casa. Bulgaria ha sulla testa un pezzo di copertone, legato con uno spago sotto il mento. Ha un sorriso stampato, come certe maschere di carnevale.
“La situazione non è così tragica” dice, con un accento che vorrebbe imitare il milanese.
“Ma presidente, ho perso il lavoro!” esclama Polanca, con un tono esageratamente afflitto.
“Bè, avrebbe potuto perdere un occhio. Invece mi sembra che lei ce li abbia ancora tutti e due.”
“Se vuole me lo cavo, ci metto un secondo.”
“Lasci stare, le potrebbero essere utili entrambi.”
“Ho tre figli, tutti disoccupati.”
“Ma non sono drogati. Sono rumeni, per caso?”
“ No, siamo sardi.”
“Dunque conterranei, cribbio, qua la mano!”
In quel momento mi accorgo che Polanca finge di essere monco, nascondendo la mano destra sotto il maglione.
“Mi dia l’altra. Con la sinistra si possono fare molte cose”
“A me la sinistra fa schifo, presidente, è disfattista.”
“Non intendevo quella, volevo dire la mano, la sua mano, quella che usa per…beh, lasciamo stare.”
Polanca, a quel punto, dopo che l’ha tenuta in tasca per tutto il tempo, tira fuori dalla tasca la mano sinistra. Stavolta, tenendole chiuse, finge di non avere le dita. Tranne il medio che continua a guardare, facendolo ruotare da una parte all’altra sotto il naso e poi sollevandolo in aria.
“Mi consenta, lei è un uomo non del tutto sfortunato, può ancora usare il telecomando. Bisogna sorridere, ce la faremo.”
Bulgaria, senza aggiungere altro, gira sui tacchi ed esce dalla stanza, con lo stesso sorriso che aveva quando è entrato. Polanca si mette il medio nel culo, “ma cos’è questa crisi, paraparapapapà”. E se ne va anche lui, trascinando i piedi.
Certi pomeriggi è così.

marzo 7, 2009

Ma una sera, prima di spegnere le luci, può succedere che ti fermi vicino a una porta. Una porta di una qualsiasi stanza di casa tua.
Che ti volti, forse per dire una cosa inutile, o perché vuoi tornare indietro a bere un bicchiere d’acqua.
E vedi, dallo specchio in fondo alla stanza, il viso magro di Polanca, appoggiato ad un armadio. Lo sguardo triste, il fumo della sigaretta. Può capitare che si resti così per un po’, io fermo, lui fermo.
Che Polanca dica, al vuoto di un muro bianco: abbiamo perso.
Non possiamo più chiedere consigli, non siamo così giovani.
Non siamo ancora vecchi per darcene qualcuno.