marzo 28, 2007

Dopo la serie di  "due battute",  questo breve  intermezzo di Polanca:

Ditegli sempre sì

Personaggi:
RVI
BXVI
.

Palazzi Apostolici, terzo piano, l’appartamento papale. Lo studio, immerso nella  luce marzolina del crepuscolo. C’è una musica di Mozart alla quale si sovrappone un breve rintocco di campane.
BXVI è seduto su una comoda poltrona. Non sappiamo cosa stia guardando, lo vediamo solo e sempre di spalle.
A un certo momento si sente un rumore di passi e qualcuno che bussa alla porta. La musica sfuma e rimane di sottofondo.

RVI:  Santo Padre, chiedo umilmente scusa per aver chiesto udienza proprio a quest’ora…
BXVI: Mi dica, cosa c’è?
RVI: Beh, ecco, Santità,  ho riflettuto a lungo sulle Sue parole.
BXVI: Eeeeeh? (la musica cresce di volume, poi si abbassa) Che parole?
RVI: Sì, quelle pronunciate all’omelia, alla parrocchia, domenica. Sa, quell’espressione…
BXVI: Che espressione?
RVI: Sì, quando ha detto che l’inferno esiste. Forse Santità era meglio evitare. Ora tutti parleranno di oscurantismo, di medioevo della chiesa…
BXVI: Ma io ho detto inferno.
RVI: Sì, appunto.
BXVI: Non è forse così?
RVI: Sì, senz’altro, Santità, però…
BXVI: L’inferno esiste anche se non se ne parla. Certo è arrifato in ritardo ma ora, ora non sente che celo. C’è pure la nefe.
RVI: Sì, sì.
BXVI: Fada, ora. E prechi. Prima però mi accenta la stufa.

Il cardinale esce, la musica cresce di nuovo. Buio. Sipario.

marzo 27, 2007


Cercò di calmare i suoi pensieri, ancora una volta. Continuava a ripetersi che da lì a qualche giorno le cose sarebbero andate meglio, che non bisognava arrendersi a quella sensazione di nausea. Era marzo, la fine di Marzo, l’inverno era finito e anche stavolta la primavera gli avrebbe fatto bene. La luce gli aveva sempre fatto bene.
Sistemò un disco di vinile sul piatto, lo fece girare a lungo e con un panno antistatico lo pulì dalla polvere. Poi, con molta cautela, appoggiò la testina sui solchi. Rimase fermo, ad osservare le lievi oscillazioni del braccetto, finché le note di “Naima” non riempirono la stanza: John Coltrane e Eric Dolphy erano con lui.
Era il tempo della musica, quella settimana la voleva dedicare ai suoi dischi. Da tre giorni si era isolato da qualsiasi distrazione, si era asserragliato in casa e in quasi settanta ore aveva ripetuto quel gesto decine e decine di volte. Voleva riascoltare tutto, tutto ciò che aveva amato negli anni della sua giovinezza. Per questo aveva ripulito il vecchio giradischi, per fare un altro tentativo.
In cuffia, steso sul divano; nella cucina mentre si preparava qualcosa da mangiare; con gli occhi chiusi o mentre lavava una pentola; sotto le coperte, poco prima di addormentarsi. Per tutto il giorno e fino a notte fonda nient’altro che musica: voleva provare a perdersi in quel flusso, capire se stavolta poteva funzionare.
Gli avevano detto che il tempo avrebbe guarito ogni cosa, che le ferite si sarebbero rimarginate. Bisogna avere pazienza, vedrai che passerà, è solo questione di tempo. Gli avevano assicurato così.
E invece le ferite ancora sanguinavano, tutto il corpo gli doleva come i primi giorni. 
Da quando Marta se n’era andata, lui aveva aspettato di sentirsi meglio, aveva creduto in quel saggio consiglio degli amici e, con pazienza, aveva osservato lo scorrere dei giorni. Ma non aveva ancora imparato a vivere. Un anno di separazione non era servito a niente, a niente erano valse le prove di una vita senza di lei.
Si era chiesto quale tipo di tempo sarebbe stato più adatto alla cura. E ne aveva sperimentato di ogni tipo.

Aveva cercato il tempo dell’infanzia.

Se ne andava in campagna, allora, nei luoghi del tempo dilatato. C’era un bosco di querce da sughero, a pochi chilometri dalla città, un posto che conosceva come le sue tasche. Lì, il sole rallentava il suo corso. Bastava camminare sull’erba alta, in primavera, osservare la forma degli alberi, strappare una foglia e sentirne il profumo. Oppure fermarsi davanti a un formicaio e cercare di ascoltare il rumore che quegli insetti facevano durante il trasporto delle loro provviste, mentre cercavano di far passare un seme dentro il buco del loro rifugio. D’estate era sufficiente andare vicino al torrente, guardare le libellule che volavano a pelo d’acqua, immaginare che fossero amici venuti dallo spazio e parlare con loro una lingua inventata. In autunno i funghi, d’inverno la neve sulle felci che non si piegavano, i sassi che spuntavano seri.

In quel posto il sole era sempre alto, disegnava un arco più lungo, molto più lungo. Era così, se lo ricordava bene. Aveva cercato di ripercorrere quei sentieri della memoria, la felicità di quelle scoperte. Invano, però. Presto si era accorto che le cose non erano più come trent’anni prima, aveva scoperto che i vastissimi campi erano diventati piccoli ritagli di terra e che le ferule, quei soldati dell’esercito nemico, non c’erano più ad affrontarlo in battaglia.

Aveva cercato l’assenza di tempo.

La pesca alle orate, nella spiaggia di Orvìle, là dove il mare e lo stagno si incontrano, era una successione di gesti e di attese, un inno alla ritualità e al silenzio. La scelta delle esche, degli ami, del filo, dei piombi. Lo sguardo fisso sul cimino, l’attesa della marea che cresce, il tocco di un sarago, il suono del campanello. E poi recuperare e fare un altro lancio, più lungo, oltre le onde che si infrangono. Quel tempo non aveva né un inizio né una fine, era un susseguirsi di gesti precisi, un dialogo continuo col mare: il pensiero e la risacca, nient’altro.
Per questo aveva riesumato le sue canne da surf. Tutti i fine settimana, da giugno a settembre li aveva trascorsi così, a cercare di annullare le ore, il processo ineluttabile dei giorni. Ma più delle spigole, più della calma delle notti all’aperto, aveva potuto il pensiero di lei, ancora lì, ostinato come l’ago di una bussola.

Aveva cercato il tempo dell’attesa.

 
Per molti giorni era andato alla stazione, a vedere i treni in arrivo e in partenza, a scrutare di nascosto quelli che attendono qualcuno o quelli che si dicono addio. Aveva trascorso intere serate sui marciapiedi di quello squallido osservatorio, nel tentativo di carpire un’emozione, di rubare la gioia di un incontro o il dolore di un distacco. Per sostituire quel sentimento col suo, per tentare altre strade dell’anima. Ma ogni volta c’era lei. Lei che partiva, lei che arrivava, lei che ripartiva ancora una volta. Un treno che si allontanava.

Aveva sperimentato il tempo veloce, con estenuanti corse in macchina lungo l’autostrada, senza destinazione, concentrato solo sulla guida e non fermandosi mai, neppure per un caffè alle stazioni di servizio.
Aveva provato col tempo dei vecchi, in infiniti solitari con le carte da gioco o nella cura delle piante di geranio. Quello della fuga, dandosi alla lettura dei romanzi più avventurosi e alla visione di film complicati. E poi il lavoro, tuffandosi completamente nell’impegno, stando in ufficio fino a tardi, a rincorrere un interesse che non gli era mai appartenuto.
Ma tutto era stato inutile, il tempo che andava cercando, il tempo della guarigione, gli era sempre sfuggito.

Forse nella musica…
Estrasse un altro disco dalla custodia e lo appoggiò sul piatto. Era Edith Piaf, una canzone che non ricordava più. Pochi giri, poche parole, poche note. In pochi secondi capì che senza l’amore non si è niente, che era perduto per sempre, che il tempo giusto era quello della fine.
Lasciò finire la canzone. Poi con lentezza andò ad aprire un cassetto.

Lo trovarono dopo due giorni, con la testa spappolata da un proiettile.
Il disco continuava a girare, emettendo un lieve fruscio. La puntina era come incastrata, vicino al foro centrale del quarantacinque giri. Ad ogni giro incontrava un ostacolo e produceva un piccolo battito. Un battito costante, come quello di un orologio. 

marzo 24, 2007

Tragedie in due battute, quattro

Interpretazioni

Personaggi:
Lo psicoanalista
Il paziente

La scena si volge nello studio di un importante psicanalista freudiano. Una luce calda illumina il lettino su cui è disteso il paziente. Alle sue spalle, il medico, adagiato su una ampia poltrona di pelle, pensa intensamente e scrive qualcosa su un quaderno. Silenzio.

Lo psicanalista: E poi? Vada avanti.
Il paziente: Questo è tutto quello che ricordo, poi mi sono svegliato. Credo.
Lo psicanalista: mmmh.
Il paziente: Mi aiuti dottore.
(pausa)
Lo psicanalista: Direi… quaranta e ventitre. Sulla ruota di Bari.

Sipario.

Gelosia

Personaggi:
Adamo
Eva

Un melo. Appoggiata al tronco, Eva aspetta impaziente.
Arriva Adamo, tutto trafelato, come dopo una gran corsa.

Eva:  – Riprenditi le tue cose e vattene via. Torna pure da quella sgualdrina.
Adamo: – Non te lo ripeto più, non c’è nessun’altra!
Eva: – Ah sì? E magari mi vuoi far credere che quel segno sul collo non è rossetto!
Adamo: – Tu sei pazza, non ho mai visto una più pazza di te!

Sipario.

Riflessioni

Personaggi:
Orfeo
Un tale

Una sala d’aspetto. Seduti uno di fronte all’altro, uno legge una rivista, l’altro guarda la parete che gli sta di fronte, senza abbassare mai le palpebre. Dopo qualche secondo, il tale appoggia la rivista sul tavolino che li separa. Orfeo rimane immobile. Silenzio.

Il tale: Con la Lira era meglio.
Orfeo: Già.
(pausa)
Il tale: Tuttavia bisogna guardare avanti.
Orfeo: Già.

Sipario

marzo 20, 2007

Tragedie in due battute, tre

Scrutamenti

Personaggi:
Leopardi
Amleto

Verso sera. Un parco immerso nella nebbia. Una panchina di legno.
Due uomini, seduti alle estremità opposte, guardano intensamente in lontananza.

Amleto: a cosa pensa?
Leopardi (senza voltarsi): al solito infinito.
Amleto: ah, non me ne parli!

Sipario.

Paradossi

Personaggi:
Achille
La tartaruga

Entrando da sinistra, una tartaruga attraversa lentamente il palcoscenico. Sta per raggiungere l’uscita, dalla quinta di destra, quando di gran corsa entra Achille, sempre da sinistra. L’uomo raggiunge la bestiola e con una  pedata la fa volare.

La tartaruga: ma che fai, sei impazzito? Stai attento per diamine!
Achille: ma…ma… sono mortificato, non capisco come possa essere successo, è davvero incredibile… mi perdoni.
La tartaruga: vai al diavolo.

Sipario.

Conteggi

Personaggi:
Un poeta
Un passante

Prima dell’alba, in una spiaggia.  Il poeta, seduto sulla sabbia, con le gambe incrociate, guarda il cielo. Ogni tanto prende appunti su un taccuino. Dopo un minuto di silenzio, interrotto solo dalla risacca del mare e dal suono del vento, arriva il passante.

Il passante: che fa, tutto solo, a quest’ora della notte?
Il poeta: conto le stelle, sono un poeta. E lei? Che è venuto a fare qui?
Il passante: non riuscivo a prendere sonno.
Il poeta: oh, come la capisco. Anche lei per ammirare questo magnifico cielo.
Il passante: no, conto i poeti.

Sipario.

marzo 17, 2007




Tragedie in due battute, due

Sconcerto

Personaggi:
Uno spettatore
La leader del gruppo

All’apertura del sipario un gruppo di campane comincia a suonare. In sala si sente qualche mugugno di disapprovazione. Poi un brusio crescente.


Uno spettatore: Basta! Basta, una di voi è terribilmente stonata.

La musica si interrompe. Silenzio.

La leader del gruppo di campane (guardando con disprezzo): accà nisciuna è fessa.

Musica. Sipario.

Ostinazioni

Personaggi:
La parola
L’eco

Una camera da letto. Luci basse. Filtrano pochi raggi dalle tende ancora chiuse.
Si intravede la parola, seduta sul letto. L’eco è ancora sotto le coperte, se ne intuisce solo la sagoma.
Silenzio.

La parola: E’ tempo che ce lo diciamo chiaramente, fra noi due è finita. Ci abbiamo riprovato troppe volte, finiamola.
Pausa.
E’ inutile che ritentiamo.

L’eco: ti amo ti amo ti amo.

La parola: il fuoco dell’amore si è spento da un pezzo. Sei un bugiardo

L’eco: ardo ardo ardo.

La parola: credi di essere spiritoso?

L’eco: oso… oso… oso.

Sipario.

Tempo perso

Personaggi:
Un pendolo
Un uomo

Una stanza arredata con mobili antichi. Uno spot illumina un pendolo, sulla parete di sinistra. L’uomo, in piedi al centro del palcoscenico, guarda dritto davanti a sé, immobile.
Per trenta secondi si sente solo il battito regolare dell’orologio.

Il pendolo: stai perdendo il tuo tempo.
L’uomo: ti prego, dammi ancora un minuto.
Il pendolo: no, ora basta!

Silenzio. Il ticchettio rallenta, poi si interrompe del tutto. L’uomo si accascia.

Sipario.

marzo 15, 2007

Tragedie in due battute *


Metà

Personaggi:
Un bicchiere
Un altro bicchiere

Al centro del palcoscenico un tavolo, due sedie. Sul tavolo due bicchieri riempiti a metà. Una luce fioca, una musica di sottofondo.

Il bicchiere mezzo vuoto:  come ti senti, oggi?
Il bicchiere mezzo pieno:  mmmh. (pausa) E tu?
Il bicchiere mezzo vuoto (dopo averci pensato):  mmmh.

Sipario

Inutilmente

Personaggi:
La luna
Un pastore tedesco errante nell’Asia

Un deserto, una notte limpida di luna piena. Silenzio.

Il pastore tedesco (guardando la luna): bau.
La luna: sta in silenzio
Il pastore tedesco: bau bau
La luna (che non capisce il tedesco): sta ancora in silenzio.
Il pastore tedesco: continua  inutilmente.

Buio. Sipario.

L’attesa

Personaggi:
Un uomo
Una zanzara

Un salotto. Seduto nel divano un uomo sorseggia soddisfatto un bicchiere di rosso.  Una zanzara si aggira nella stanza.

L’uomo  (pendando ad alta voce) : è proprio vero, il vino fa buon sangue.

La zanzara, posatasi sul collo dell’uomo, sorride. (Pensando fra sé e sé) : bevi…bevi.

Sipario.

* Pensando alle tragedie in due battute di Achille Campanile.  La seconda è  quasi una citazione

marzo 13, 2007

Siamo così giunti al termine. C’è però il tempo per raccontarvi la  serata di sabato. E’ possibile che mi sfumino e che le ultime frasi finiscano sui titoli di coda. O che cancelli tutto di nuovo. Io ci provo.
Boh, c’era questo tipo che cantava, uno che non avevo mai sentito. E’ una vera star, mi dicono, la rivelazione musicale degli ultimi tempi, mì non perderti il concerto di stasera. Noi ci andiamo di sicuro non fare il sirbone stanati guarda che è uno bravo vestiti così non metterti quella roba là ho un sacco di cose da raccontarti.
Sì, però arrivo in ritardo che prima c’è il Cagliari, nell’anticipo, e per il Cagliari aspetta financo la Kidman. Uh, forse l’ho sparata grossa. Non c’è storia, questo volevo dire, si esce dopo, con calma.
Suazo pareggia e io vado. Avremmo meritato di vincere e io vado. Un’ora di ritardo che volete che sia io vado.
L’evento è già iniziato da un bel po’, entro nel locale con fare disinvolto anche se nessuno si accorge di me. Sorrido a tutti ma nessuno mi vede. Faccio ciao a una che conosco e lei mi guarda con l’aria interrogativa di chi sei chi ti credi di essere ciaociao fallo a tua sorella. Barbaricinismo puro.
Finalmente scorgo le mie amiche e mi sistemo vicino a loro, in piedi, in un angolo, l’angolo dell’ultimo arrivato, il posto del coglione. Ma tanto è da sentire, anche se non vedo bene posso ascoltare.
Il poeta moderno urla delle cose, parla, a tratti canta. Poi parla di nuovo con uno che gli sta a cinquanta centimetri e che si rivolge al nostro metà in italiano e metà in sardo. Difficile seguire, difficile. Eppure ci metto tutta la buona volontà, che io sono curioso quando mi dicono che c’è un fenomeno.
L’amplificazione non aiuta, il suono è tutto intubato, ci vorrebbero i sottotitoli come all’opera lirica. O il libretto o la pag.777 di televideo che so io. Mmm, forse è una questione di età. Mamma, mi viene paura, non capisco, non capisco una sola parola. Forse questa serata serve a farmi capire che sto invecchiando, mamma ho paura.
Il livello alcolico del pubblico è già sulla tacchetta rossa, io sono lucidissimo maledizione non riesco a battere le mani e i piedi sono piantati in terra come due paletti da geometra. Peggio per me, così imparo ad arrivare tardi. Un bicchiere di Jerzu, poi un altro e ancora uno. No, non va.
Comunque mi concentro ancora, e riesco a cogliere alcune parti di un testo. Molto ermetico, molto ermetico. Mi ricordo che parla di gel. Il ggell, dov’è finito il ggell, dove ho messo il gell? dove ho messo il gell? dov’è il mio gel? dov’è il mio gell? dov’è il mio gell? Dov’è finito il gell? Dov’è finito il ggell? Dov’è finito il ggell?

Pubblico in delirio.
Questo vino mi sta facendo male, penso. E appena penso così, di nuovo applausi e urla di fans scatenati. C’è qualcosa di strano.
Uno, seduto in prima fila, le sa tutte a memoria le canzoni e vuole cantare anche lui. E canta. E a me, fra questo che può essere di Orune e il cantautore piemontese, mi sembra che non ci sia molta differenza.
Quando penso così di nuovo applausi. Oh, cazzo. Però stavolta è perché il cantante è diventato parlante e dice delle cose che io ancora non riesco a capire.
Che lingua è? chiedo a una mia amica seduta vicino a me. Come che lingua è! E’ italiano: allora è terrore.
Più tardi la star discute con uno che si è piazzato lì affianco a lui e  tutti cominciano a gridare “bellamariè, bellamariè, bellamariè”
Questo dev’essere il suo ultimo successo, penso, gli stanno chiedendo il pezzo forte, il cavallo di battaglia. Invece no. E’ arrivato uno che si chiama Marieddu e pare che sia costume salutarlo così.
Devo bere, devo bere. Forse così… bellamariè bellamariè.
Macché, il vino è strano. A un certo momento mi sembra di essere altrove, ho un deja vu, mi pare di ricordarmi di una volta che ero finito a Urzulei, senza sapere come, e cantavo corri ragazzo vai e non fermarti mai Urzulei lallallalàlallallalà.
Il concerto finisce. Senza che io ci sia entrato minimamente, anzi sono rimasto fermo coi paletti conficcati. e la testa che è un dlindlon. Anche adesso che tutti si muovono e si divertono vicino al bancone del bar, sto immobile e sento di avere uno sguardo da ebete. Mi sento una specie di Bobby Solo, un Little Tony, uno di quelli che tanto lo sai quanti anni hanno, cantano dal 1900. Di quelli che non si rassegnano a invecchiare, ma tu lo sai anche se hanno il ciuffo. Aspè che me ne vado prima di mostrarmi ancora più patetico. E mi tocco i capelli che sento improvvisamente sulla fronte anche se li ho cortissimi.
Poi penso ancora. E mi faccio due accordi nella testa.
I giovani son giovani, cazzo. Beati loro.
I giovani sono come giovani
I giovani alla faccia dei vecchi sono giovani
I giovani cantano le canzoni
I giovani hanno facce di giovani
I giovani bellamariè bellamariè
I giovani sono giovani e non hanno il ciuffo
I giovani sono giovani beati loro
I giovani anche se hanno i capelli corti
I giovani cantano e capiscono
I giovani bellamariè bellamariè
I giovani sono giovani come giovani…

Oh merda ma che mi prende?
Scappo via. In macchina canto a squarciagola:
da una lacrima sul viiiisoooo, ho capito molte cooseeee.

In un minuto sono a casa. In bagno, mentre mi lavo i denti, un enorme tubetto di gel si materializza vicino allo specchio. Poi tutto comincia a girare vorticosamente. Mi sento molto Peppino di Capri e il cuore che ti vuole bene.

marzo 12, 2007

Proite no arriban istedhos, como
a istampare su chelu
a mi facher pompiare
prus adhae ‘e sa carrela
affrigida de eletricu
e domos nigheddas.
E proite non pranghen a sucutu
cando los bido
“itte b’at, itte at suzzessidu?”
cun ojos interrados
e dae nudda aggallados.

E sos anghelos,
itte aisettan sos anghelos
a facher su zustu
in custu sero goi maccu
chi avansat insustu
in su tzirriu mortu ‘e sa preda.

Eja, a bois, a bois soe nande.
Lassade pasare, un’iscutta,
sa bantzicadura pensamentosa
chi s’iscravat in terra.

Perché non arrivano stelle, ora
a bucare il cielo
a farmi guardare
oltre la strada avvilita
di lampioni e di case più nere.
E perché non rompono in pianto
quando le vedo
“cos’è, che ti succede”
sul mio sguardo infossato
e incallito dal niente.

E gli angeli,
cosa aspettano gli angeli
a fare giustizia
di questa stupida sera
che umida avanza
sul grido morto delle pietre.

Sì, voi
concedete riposo, una tregua
a questo dondolio
di pensieri
che cadono a terra.

marzo 8, 2007

Bobbotti: Che faccio? Cancello?
Blog: Non ci provare.
Bobbotti: Suvvia, quello di ieri è un post che fa piangere. Non avrei dovuto permettertelo.
Blog: Fanno piangere tutti. E non è questo il punto.
Bobbotti: E allora cos’è?
Blog: Era un modo per cercare di salvare qualcosa
Bobbotti: Hai trovato quello peggiore. C’erano altre foto nell’album dei ricordi, momenti migliori, se proprio dovevi alimentare la tua nostalgia. 
Blog: I momenti migliori per te, non è detto che lo siano anche per me.

Pausa

Bobbotti:
Tutti penseranno che scrivo solo sciocchezze.
Blog: Tutti penseranno che mi stai tradendo.
Bobbotti: Vai al diavolo.
Blog: Vaffanculo.

Pausa

Bobbotti: Ti ricordi come era divertente all’inizio?
Blog: Sì. Lo è stato. E’ passato tanto di quel tempo.
Bobbotti: Eravamo complici.
Blog: Eravamo complementari. E ci bastavamo.
Bobbotti: Già, degli altri ci importava ben poco.
Blog: Ora sembri più interessato a quello che pensano gli altri.
Bobbotti: Ma forse è naturale.
Blog: Non c’è niente di naturale. Si chiama narcisismo.
Bobbotti: Forse.
BlogDovresti pensare a me.

Silenzio


Bobbotti
: Vuoi un caffè.
Blog: No.

Pausa

Bobbotti
: Facciamo così, adesso io pesco un ricordo di quando eravamo realmente felici. Lo posto. Anche per i nuovi amici che ho incontrato da poco.
Blog: Sì, quelli per cui mi trascuri. Riscalda pure la minestra.
Bobbo
tti Dovresti vedere le cose da un altro punto di vista.
Blog: Se c’è qualcuno di nostalgico, qua dentro, quello non sono certo io.
Bobbotti: Giuro che poi ci metto una pietra sopra.
Blog: E quale sarebbe questo ricordo?
Bobbotti: E’ una cosa di un anno fa. Una storia di Sunis.
Blog: Che noia. Qual’è?
Bobbotti: Questa.
Blog: che noia.

                                      

Gli succedeva, da qualche tempo, di andare a dormire più tardi del solito. Non c’era una ragione precisa e, se c’era, lui non riusciva a spiegarsela.
Per tutta la vita, fin da quando era ragazzo, Antonio Bandinu aveva sentito il richiamo irresistibile del sonno intorno alla mezzanotte, come un dispositivo a tempo che scollegava il suo cervello dalle fatiche o dai piaceri della realtà e che in pochi minuti lo mandava nei luoghi dell’inconscio. Qualche volta aveva maledetto quel torpore che bruscamente s’impadroniva di lui, compromettendo il lieto finale di una festa o la prosecuzione di una discussione interessante fra amici. Ma generalmente aveva sempre ringraziato il cielo per quella sana abitudine che a una certa ora lo liberava dalle preoccupazioni della vita.
Ora, invece, non era più così. Sempre più spesso, andava a letto con un peso che gli gravava sulla coscienza, qualcosa di indecifrabile che continuava a ruminargli nella testa. Non erano veri e propri pensieri, quanto piuttosto una specie di riverbero, un barbaglio che gli restava inspiegabilmente appeso. Come se del film della giornata appena trascorsa gli rimanesse appiccicato un eterno scorrere dei titoli di coda, invece che la scena cruciale.

Fu in una di queste notti che spense la luce e chiuse gli occhi. Sapeva che prima o poi, anche in mancanza di sonno, un personaggio sarebbe comparso a fargli compagnia in quel fastidioso stato di dormiveglia.
E, infatti, arrivò.

Tia Franzisca Pantama giunse dentro la stanza di Antonio Bandinu, quando da poco erano passate le due. Avvolta da uno scialle nero, con i piedi scalzi e le mani coperte da guanti di lana, apparve nel buio, preceduta da un ombrello scintillante che teneva aperto sopra la testa. Era minuscola e luminosa come una jana, una di quelle fate che avevano popolato la sua infanzia.

– No, chiudete quell’ombrello, tia Franzì, porta male!

Tia Franzisca non rispose. Sopra di lei ronzavano decine di mosche maghedde, quegli orribili e giganteschi insetti dalla testa di pecora, con un occhio solo e un pungiglione velenoso sulla coda.
Camminando lentamente, cominciò a girare in cerchio, lungo il perimetro della camera da letto. Aveva uno sguardo triste e un’ espressione quasi di rimprovero.
– Cosa c’è, tia Franzì, perché mi guardate così? Non vi ricordate di tutte le volte che sono venuto a casa vostra a tenervi compagnia? Di tutte le volte che sono andato a farvi la spesa o che vi ho scritto in un biglietto la lista delle cose che vi servivano? E non rammentate più quando per i "morti" mi facevate dono di un melograno e di un po’ di castagne per il “bene” di vostro marito, che in cielo sia. O di quando a settembre vi portavo i fichi che tanto vi piacevano?

A quelle parole le mosche maghedde cominciarono a volare in modo più confuso e a produrre un suono ancora più spaventoso.
Per Antonio Bandinu fu facile capire. In quell’istante si ricordò che solo lui, in tutto il paese, era stato a conoscenza del segreto di Franzisca Pantama. E che quel segreto l’aveva scoperto proprio mentre raccoglieva i fichi dall’albero grande, quello del suo cortile di casa, quel monumento alla felicità dell’infanzia.
Vi si arrampicava sempre, Antonio bambino, soprattutto nelle giornate estive, quando nella controra non si poteva circolare per le strade, ché la “Mama del sole” o “Maria Farranca” potevano arrivare all’improvviso e ghermirti, per portarti con loro nel regno dei mostri.
Lì, sui rami di quell’albero, aveva dato dimora alle sue fantasie, leggendo i libri di Verne e immaginando le nature selvagge di Salgari. All’ombra delle larghe foglie aveva coltivato il piacere delle sue prime solitudini, aveva scoperto la sorpresa dei primi amori, aveva enumerato alle coccinelle i suoi desideri più forti. “Pipiola pipiola bae e bola…portami un pallone, le scarpette da calcio, un bacio di Antonella… un aneddu ‘e isposae pipiola bola e bae”.
Sempre da lassù, dominando dall’alto, aveva potuto osservare quel che accadeva negli orti dei vicini. Aveva visto Birai Mura baciare la sua giovane amante, Giuseppe Furesi nascondere una vecchia pistola fra le pietre di un muretto a secco; aveva osservato a lungo il lavoro di Salvatore Verrina che sotto una pergola trasformava pezzi di corno in perfetti manici di coltelli a serramanico.
E un pomeriggio, mentre staccava i primi frutti verdastri, non ancora del tutto maturi, aveva visto Franzisca Pantama parlare con le anime dei morti.
La prima volta non aveva voluto credere ai suoi occhi, aveva pensato a un’allucinazione provocata dalla calura, uno di quei miraggi di cui erano vittima i personaggi dei suoi fumetti, quando si perdevano nel deserto. Ma quando la vide una seconda volta, dopo essersi rinfrescato la testa sotto l’acqua del rubinetto, constatò la verità: non era vero che tia Franzisca era muta, non era vero per niente.
Gli avevano raccontato che la povera donna aveva perso il dono della parola il giorno stesso in cui le comunicarono la notizia della morte del marito, nella prima guerra mondiale, e che da allora non lo aveva più riacquistato. Da allora, nessuno, a Sunis, aveva più sentito la voce di quella vedova inconsolabile. “Afasia permanente da trauma” aveva sentenziato il dottor Mereu, molti anni prima.
Invece non era così. Antonio, quel giorno, scoprì che la donna aveva interrotto le comunicazioni col mondo dei vivi ma che era capace di parlare, e parlare a lungo, con il mondo dei più.

Se ne stava china sulla vasca di cemento, quella del cortiletto dove faceva il bucato, e specchiandosi nella superficie dell’acqua limpida, annuiva o faceva segni di diniego con la testa, come se stesse ascoltando attentamente le raccomandazioni di un altro. Poi cominciava a parlare.
Parlava soprattutto col marito, “eja Antò, già faco gasi comente naras tue”. Lo rassicurava continuamente sul proprio stato di salute, sulla sua fedeltà, sul pagamento dell’affitto da parte di un mezzadro al quale aveva dovuto affittare un appezzamento di terreno. Oppure gli raccontava degli ultimi accadimenti del paese, di quanti erano passati a miglior vita, di chi si era sposato, del tempo che faceva e di quanta legna aveva dovuto comprare per l’inverno a venire.
Qualche volta dialogava anche con la sorella Angelina e con lei la conversazione si faceva più tenera. In quel caso era sempre lei a dare buoni consigli: non affaticarti, dimmi di cosa hai bisogno, ses sempre bella che sole.
Talvolta, poteva capitare che si rivolgesse anche a un bambino, forse un figlio morto in tenerissima età, e allora tia Franzisca si avvicinava ancora di più al pelo dell’acqua e vi lasciava cadere qualche lacrima.
Antonio, dopo la sorpresa iniziale, aveva cominciato ad appassionarsi a quegli insoliti incontri della donna. Dal suo nascondiglio aveva potuto osservare quegli appuntamenti pomeridiani che Franzisca stabiliva con le anime e aveva potuto sentire anche i bellissimi monologhi a cui la vicina, di tanto in tanto, si lasciava andare. Grazie ad essa aveva potuto apprendere pezzi importanti della storia di Sunis, soprattutto di quella storia lontana che nessuno gli aveva mai raccontato. Aveva messo insieme frammenti di avventure, narrazioni di oscure vicende, piccoli stralci di vite passate. E, con l’aiuto della fantasia, aveva ricostruito, anche se in modo confuso, il piccolo mondo antico del suo paese. E quel mondo gli era sembrato altrettanto appassionante delle storie di Capitano Nemo.
Naturalmente si era guardato bene dal farne parola con qualcuno. La mappa di quel tesoro era tutta sua e per niente al mondo l’avrebbe condivisa. Allo stesso modo, anche con tia Franzisca aveva continuato a comportarsi come se niente fosse accaduto. Andava a trovarla quasi ogni giorno, per farle le commissioni e beccarsi s’istrina -le piccole mance che la vecchia non mancava mai di mettergli nel pugno- ma per mesi non accennò minimamente alla sua scoperta e continuò a far finta che lei fosse davvero muta.
Finché un sabato mattina, mentre restituiva il resto della spesa appena fatta e calcolava quanto avrebbe incassato di mancia -anche in virtù del piatto di fichi che le aveva portato- gli sfuggì dalle labbra una domanda che non avrebbe voluto mai fare:
– Ma vostro figlio vi risponde, tia Franzì, quando gli parlate nella vasca?

La vedova si irrigidì. Guardò Antonio con un’espressione di meraviglia, emise un piccolo gemito e accompagnò il bambino alla porta.

Da quel giorno non l’aveva più vista. Aveva saputo che per qualche tempo era stata la figlia di una sua nipote a prendersi cura di lei. Lui non era più riuscito a mettere piede in casa di quella nonna adottiva. E da quel maledetto sabato Franzisca Pantama aveva smesso di parlare con l’acqua e con i morti.
Dopo un mese, la donna morì. Di solitudine, dissero in paese.
Sull’albero di fichi, Antonio pianse in silenzio, senza farsi vedere da nessuno, guardando in direzione del lavatoio.

– Chiudete quell’ombrello, tia Franzì, porta male. Fermatevi ora, vi prego.

Si fermò, e lo guardò con occhi ancora più tristi. Le mosche continuavano a mulinare.

– Dormi ora, dormi. Devi dormire – sussurrò, con quella voce che solo Antonio poteva ricordare.
Disse solo così, poi sparì nel nulla, lasciando nella stanza una breve scia luminosa.

Qualche ora più tardi Antonio Bandinu fu svegliato da un brivido di freddo. Cercò di allungare un braccio per tirarsi su le coperte ma si accorse che non poteva muoversi.
Quando aprì gli occhi vide sopra di lui una massa d’acqua, limpida e calma. Così trasparente che in lontananza poteva vedere il cielo.
Gli parve il cielo di Sunis.
E stava bene.

marzo 7, 2007

Sento una voce. E’ la voce di bardofulas, lo so.

– Bisogna aggiornare, bisogna aggiornare.
– Ma oggi non  riuscirei a scrivere neppure la lista della spesa.
– Metti comunque qualcosa. Anche la lista della spesa, perché no, quei pochi lettori che passano capiranno, vedrai.  Ti vogliono bene, anche se il merito è più mio che tuo.
– Come tuo?
– Sì, il blog vive di vita propria, può anche fare a meno del suo titolare.
– E allora perché mi chiedi di postare?
– Lo dicevo per te.
– Per me?
– Sì,  così magari socializzi un po’.
– No, oggi non ne ho nessuna voglia..
– Fai come cazzo ti pare, però  sarebbe meglio  che tu mi ascoltassi, ogni tanto.
– Ma sono stanco, vuoto, stonato. Come te lo devo dire?
– Metti una cosa breve, una roba senza senso.  Guarda che lo hai fatto spesso,  la maggior parte delle pagine sono  robetta di cui mi vergogno. Non ti ho mai detto niente per non urtare la tua sensibilità ma …
– Ma?
– Beh, ecco,  forse è meglio se non ci metti troppo impegno, che tanto il risultato è lo stesso: sempre robetta. 
– Alcune cose mi sembravano buone. Qualche racconto.
– Mmmh, lascia perdere. 
– Sì, lasciamo perdere. Anzi , adesso ti chiudo.
– Ecco, ti sei già offeso.  Volevo solo dirti di  non trascurarmi troppo e tu  fai il sostenuto.  Tu non mi vuoi più bene.
– Adesso mi fai anche le scene?
– No, tranquillo, non piangerò.  Anche se ne avrei tutte le ragioni del mondo quando non mi degni neppure di uno sguardo.
– Ma cosa dici? Negli ultimi tempi ho smesso di frequentare gli altri siti. Scrivo pochissimi commenti,  ti dedico molto più tempo, molto di più rispetto a quando ci siamo messi insieme.
– Me lo stai rinfacciando?
– Ma no!  Senti, basta con questo muso, dimmi cosa dovrei fare.
– Postare. Adesso. Dimostrarmi un poco d’affetto.
– Ma non ho niente da scrivere.
– Prendi una cosa già pronta.  O uno di quegli stupidi giochini di parole che hai seminato qua e là.
– Tipo?
–  Tipo questi, guarda qui.
–  Ma che fai, vai a frugare nelle mie cose?  Bene, molto bene.  Vuoi fare a meno di me, potevi dirmelo subito. E allora fai pure, esercita pure questa forma di onanismo.
– Davvero posso?  Ma guarda che lo faccio per noi due. Solo per noi due. Bobbò, per noi.
– Ho capito, ho capito. Noi due.
– Guarda, ho scovato queste crittografie, per esempio:

Maschera del teatro giapponese:  FACCIA FINTA DI NO
Editto pugliese: LETTO A UNA PIAZZA DI FOGGIA ANTICA
Podio regale: BASE PER ALTEZZA

– O questa vecchia filastrocca che avevi mandato su un altro blog. A proposito diglielo a quelli di fanfan  di levare un po’ di polvere, ogni tanto.
Era questa, ti ricordi, l’avevi titolata "muto d’accento"

Legàmi,
giacché mi capita di leggere di leggère giacche o di una scia di lacche sulle teste di lacchè
di principi e di scià che perdono la meta, di legàmi da tenere con le tenere metà.
Di princìpi del perdono, di dòmini e domìni, di pàttini e pattìni
del pure nel purè, del pero nel però, del si che si fa fa.
Del sì che è sì testé, nell’àmbito subìto, nell’ambìto sùbito, nel còmpito e il compìto.
Di tèndine e tendìne, di protesi e protèsi con rètine e retìne.
Di uno scampo che scampò all’amo che l’amò, il cànone e il canone, la formìca nella formica ed il gatto nel gattò.
Lègami, o la farò nel faro della baia di Baia, sul canapè di canape con la bàlia in mia balìa.

E ancora…

Ho detto ancora.

– Ma anche quest’altra sciocchezza,  questo falso dizionario enologico che avevi mandato non so dove.
 

Abboccato: vino ingenuo, gustabile anche “a canna”; particolarmente adatto al pesce. In Sardegna può essere di parte.
Albana: vitigno utilizzato da un famoso cantante italiano
Amabile: da amo; vedi abboccato
Barricato: vino stagionato. Particolarmente apprezzata l’annata del 1968
Botte di legno: dicesi di randellate, mazzate, bastonate (vedi barricato)
Brunello: né bianchetto, né rosatello, né rossetto, né verdicchio
Brut: eppure piace a molti
Disco del vino: la donna cannonau
Dolcetto: uno degli hallo- wine
Marsalato: dicono che sia dolce, ma avete mai bevuto al largo del mar Tirreno?
Monica: assai buono
Monica: molto bona, sì quella che state pensando.
Nasco: vino giovanissimo
Rossetto: vino che lascia macchie sulle camicie maschili
Semisecco: sec
Spunto: da offrire solo in determinate occasioni
Tino: un mio amico

– Sono tutte cazzate, spero solo che Polanca non passi da queste parti. E comunque adesso ti spengo. Non voglio neppure vederlo questo post.