novembre 18, 2005

Si sente malissimo, qui, molto molto peggio rispetto al CD.  E' una prova di racconto sonoro, presa da una registrazione di un reading di qualche settimana fa. Le altre parole (quelle scritte e mancanti) sono  nell'archivio, alle origini del blog

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novembre 12, 2005

                            

                                                        così e così     

 

Al crepuscolo, il goi e gai aveva attraversato il paese come un freddo venticello del nord. Silenzioso, quasi inavvertibile, proprio come una brezza nascente di fine Novembre, era stato in grado di infiltrarsi ovunque. Incanalato nelle strette viuzze dell’antico rione di San Basilio, era penetrato nelle crepe dei muri, nelle rugginose tubature dell’acquedotto, sotto gli stipiti delle porte malandate. E le umide case lo avevano inghiottito.
Chi vi abitava  -quelle poche vecchie in fardetta da vedova, con la tomba già prenotata e pagata all’ufficio ragioneria del comune- aveva avvertito un brivido lungo la schiena, una tudda inaspettata, i peli drizzarsi. A niente erano valsi i segni di croce davanti alle immaginette di Padre Pio e alle madonnine di Lourdes in plastica bianca con coroncina azzurra e acqua benedetta, in bella mostra sopra i centrini a ricamo e i ripiani dei caminetti: quella sensazione sgradevole era arrivata fino alle povere e fragili ossa e ora, per attenuarla, era necessario parlarne con qualcuno. Così, prima del tramonto, nelle cornette grigie di vecchi apparecchi a disco, il goi e gai si era moltiplicato, aveva attraversato i cavi sotterranei dello stradone ed era uscito dai moderni cordless, nei lussuosi soggiorni delle villette a schiera, nel nuovo quartiere, alla periferia di Nughes. Lì, medici e avvocati, professoresse e architetti, impiegati e commercianti, i figli e i nipoti di quelle vecchie bigotte del centro storico abbandonato, avevano tradotto le due paroline nella lingua colta imparata a scuola. Così e così. E prima della mezzanotte di quel ventisei di Novembre, il goi e gai, come un ruscello che si gonfia di pioggia autunnale, si era fatto scuro e minaccioso, era diventato un torrente pronto a straripare. Ora, le due parlate, ancora conviventi nella cittadina, confluivano in quel torrente e producevano un unico assordante mormorio, cupo e sinistro. Ora, ognuno lo poteva sentire, quel torrente, e ognuno lo poteva alimentare. Con la lingua dei padri o con quella dei figli. Fino a farlo diventare un fiume in piena, fino ad allagare le strade. Di nanchi, dice che, goi e gai, ma lo sai che.
Ma lo sai che hanno arrestato Antonio Mameli. Nanchi che ha ucciso la sua ex moglie. Ma lo sai che l’hanno trovata in fondo al lago con una pietra legata al collo con il filo di ferro. Eja, sos carabbineris, in manette. Goi e gai, così e così, ma lo sai che, ma lo sai che, ma lo sai che…


-Ma lo sai che così rischi l’ergastolo?
-Sì, lo so.

Alle sei del mattino, dentro la caserma di Villasperanza, Antonio Mameli si rifiutava, per l’ennesima volta, di fornire all’avvocato Pilosu una precisa versione dei fatti.
Si trovavano lì da diverse ore. La livida alba cominciava a intromettersi nella pallida illuminazione di un neon. Antonio, per tutto quel tempo, aveva tenuto lo sguardo fisso sulle sue scarpe senza lacci, aveva ascoltato le inutili domande dell’anziano penalista, aveva bofonchiato un’impossibile richiesta di sigarette e, a più riprese, quei tre monosillabi. L’avvocato, con le maniere acquisite dalla lunga esperienza in Barbagia, aveva cercato di forzare quel muro di reticenza, ora assecondando i silenzi, ora incoraggiando il suo assistito, ora cercando di spaventarlo:
– Ma lo sai che così…
– Sì, lo so.
Alla fine si era arreso. Stravolto dalla fatica della notte insonne e dal colloquio senza esito, il legale si era alzato e aveva indossato il cappotto, pronto ad andar via. Prima di uscire dalla stanza però, facendo leva con l’indice destro aveva sollevato il mento di Antonio, per guardarlo dritto negli occhi e parlargli con franchezza, in quel modo categorico e un po’ ruvido che aveva imparato fin da bambino:
– Ti avverto, io non torno più. O ti decidi a parlare o non vedrai più la mia faccia.
– Torni pure a casa, avvocà, vada a dormire, non si dia pena. Non credo che io la rivedrò mai più, ma domani, quando si sveglia, controlli nella sua cassetta della posta. Lì troverà tutto. Tutto quello che vuole sapere.
– Cosa vuoi dire?
– Niente, niente.

Il sole era già alto e il cielo liscio come uno specchio. Per tutta la notte un forte maestrale aveva spazzato via le impurità dell’aria e una luce abbacinante inondava la piazza. L’avvocato Pilosu, uscendo dall’ufficio delle poste centrali, si sollevò il bavero per ripararsi la nuca dalle folate improvvise di vento che ancora colpivano a tradimento. Aveva appena ritirato la corrispondenza dalla sua casella e mentre tornava alla macchina ripeteva, col pensiero, quelle poche parole che Antonio Mameli gli aveva rivolto qualche ora prima.
Entrò nella sua Mercedes metallizzata e prima di mettere in moto scartò con nervosismo decine di buste. Bollette, inviti a convegni, estratti conto, invadenti volantini pubblicitari. Fino a trovare la lettera che cercava. Strappò la carta, e senza preoccuparsi della gente che avrebbe potuto vederlo, come un innamorato che non vede l’ora di scoprire cosa scrive l’amante, cominciò a leggere.

“ Caro avvocato Pilosu,
ora lo so. Sì, lo so, l’amore è un errore, un tragico errore della natura. E’ impossibile indagarne il senso, ma alla fine è così. Un inganno, un’eterna sconfitta, un’ossessione che diventa odio. Un odio inteso in modo letterario più che letterale. Come in un film di Truffaut.
Non s’interroghi troppo sul significato delle mie parole. Lo stato di prostrazione che mi soggioga mi fa scrivere in modo caotico e confuso. Sappia solo che la gelosia e l’orgoglio non hanno niente a che fare con questa storia. Semmai è un concetto di impossibilità, quello che prevale.
Non so cosa mi sia saltato in testa l’altro pomeriggio.
Era quasi un anno che non la incontravo, da quel giorno che nel suo studio avevamo definito i termini della separazione. Da allora, l’avevo vista solo una volta, da lontano, riflessa in una vetrina di un’altra città. Sapevo che era meglio così.
Forse è stata la sua voce al telefono, il tono d’affetto, in quell’invito buttato lì “sono di passaggio a Nughes, se vuoi possiamo prendere un tè insieme”. O la mia immediata arrendevolezza a quella docilità “va bene, fra quanto”. Forse quella striscia di luce che poco dopo filtrava da una finestra del bar e che tagliava a metà il nostro tavolino, come a rilevare una divisione incolmabile. Forse il suo sguardo, diverso da come l’avevo sempre conosciuto, pieno di interrogativi. E una mano bianchissima,  un anello . La sua immutata bellezza.
E un dialogo laconico fatto di mille rimandi:
– Allora, come ti va?
– Al solito
– E in cosa consiste il solito?
– E’ fatto di abitudine. E tu?
– Bene. Sono a un buon punto.
– Nella ricostruzione?
– Sì, nel daccapo.

Ecco, forse è stato tutto questo, le impressioni, le sfumature di pochi minuti, a coprirmi di un sentimento d’infinita amarezza. Un’ amarezza romantica, con una valenza positiva. Piacevole, in fondo.
Ma tutto sarebbe finito lì. Con un saluto, un arrivederci, un frastuono soffocato di malinconia. E poi via, di nuovo a combattere con i fantasmi, a scacciare le visioni di lei. Che dopo qualche ora sarebbe riapparsa in un libro, in qualche film o in qualsiasi angolo di casa.
Invece, non so perché, Marta mi ha chiesto di fare una passeggiata. “Voglio rivedere il fiume, voglio rivedere il posto dove ci siamo innamorati, non lo ricordo quasi più”.
E’ stato lì, sulla grande roccia che sovrasta il laghetto di Poggiu ‘e Martine, mentre muti guardavamo dall’alto lo scorrere lento dell’acqua e confuse immagini di dodici anni prima, due che si baciano e nuotano e si rincorrono e si baciano ancora.
E’ stato lì che insieme, nello stesso istante, abbiamo sentito la nostra risata ventenne echeggiare nella valle.
E’ stato lì, in quel momento, che ho pensato di preservare un ricordo, di fermare il tempo. Con un filo di ferro legato ad un sasso e con tutto l’amore che avevo in corpo.
Così, caro avvocato.
Almeno lei mi perdoni, se può. E, la prego, spieghi a mio padre, se può.”

L’avvocato Pilosu lesse la firma di Antonio Mameli, prima di ripiegare il foglio. Col cuore in tumulto accese il motore e fece sgommare le ruote. In pochi istanti fu davanti a casa sua. Lasciò in moto, accostandosi al marciapiede. Doveva solo prendere un fascicolo e recarsi da Antonio, in fretta, più in fretta possibile. Mentre apriva il portone, sentì squillare il telefono del vicino. Poi quello del suo studio. Poi il cellulare.
Capì subito che un altro goi e gai stava circolando fra i cavi e nell’etere.

Gli ci vollero pochi secondi per tradurlo in un volo da una finestra. Da un palazzo a pochi chilometri dal punto in cui si trovava. Precisamente a 2700 metri, in linea d’aria. L’esatta distanza che separava il suo studio dalla caserma di Villasperanza.

novembre 7, 2005

Scarti / 1

Credere
spendere tempo
contro le more.
Alla luna
aspirare
impicciarsi.
Costruire
la resistenza vita.
?

Cedere
pendere temo.
Conto le ore.
All’una
spirare.
Impiccarsi
ostruire l’esistenza.
Via.

!

Scarti/2

-Arido cantico scadente- dite.
-Ritmo e metro: rumore!
Sicuro disdegno
emozioni incredibili
di amorfe
voci. Odio
i poeti stonanti.

Rido: – Antico cadente, ite!
Rimo mero umore
scuro disegno
mozioni incedibili.
D’amore.

Voi, "dio"
xxxx  xxxxxxx!

novembre 1, 2005

                                                        Lupus et agnus     

No, è che io a un certo punto pensavo proprio d’aver visto l’uomo lupo, stamattina. Ma non per la barba che gli saliva fino agli zigomi e i peli che gli spuntavano dalle orecchie, i casi d’irsutismo sono piuttosto frequenti nella nostra clientela. E neppure per quelle unghie adunche con le quali serrava un vecchio libretto di risparmio. Anche quella roba lì l’avevo già vista, più o meno uguale e anche di più, in quei tizi che tengono ben curata l’unghia del mignolo lunga due centimetri come se fosse un cornetto scacciaiella o un ex-voto per la madonna del mare. No, è che a un certo punto quel signore davanti alla cassa, con lo scontrino salvacoda numero 782, mi ha detto: “vorrei fare uuuuuuu uuuuuuuun prelevamento”. Non sapevo se mettermi a ridere o se chiamare aiuto, perché era chiaro, chiaro come il sole di maggio, che in quel momento mi trovavo in preda a uno stato di allucinazione. Ma forse è solo un calo degli zuccheri, ho pensato, è che la mattina devo abituarmi a fare una colazione più abbondante, anziché il solito caffè nero e sigaretta. E anche quel battito extrasistolico di mezz’ora prima era stato un chiaro avvertimento. Allora ho detto prego mi dica quanto vuole prelevare e lui mi ha risposto vediamo prima quanto c’è. Forse ha aggiunto anche un piccolo risolino, ora non ricordo.
Ho preso il libretto, pronto ad aggiornare il nuovo saldo e fare presto l’operazione, non vedevo l’ora di liberarmi di quella sgradevole sensazione e fare una pausa al vicino bar di signora Maria. Ma come l’ho aperto è saltato fuori un foglietto con una scritta a pennarello rosso: questa è una rapina, se non fai presto ti faccio saltare le cervella. Ho sollevato lo sguardo e prima di mettere a fuoco la pistola che il tipo mi puntava contro ho visto i suoi occhi: cazzo aveva anche gli occhi da lupo mannaro, infuocati e brillanti come lampadine.
– Mi scusi, mi dica quanto vuole prelevare, sa non mi sento tanto bene, ho un’allucinazione da fame, credo che sia meglio se concludiamo la transazione dalla mia collega alla cassa due, venga l’accompagno- ho detto, sforzandomi di sorridere con gentilezza. La cosa si faceva preoccupante, le visioni sempre più inquietanti.
– Voglio tutto quello hai, stronzo. Hai dieci secondi di tempo per travasare il contante da quel fottuto cassetto in questo strafottuto sacchetto. Poi ci vado da solo dalla tua collega della cazzo della due.
– Basta, la pianti con questa sceneggiata, ora mi fa anche i giochi di parole? Ma non vede che sto male? Non ho voglia di scherzi.
Il tipo aveva cominciato il countdown, era arrivato a cinque. Non sapevo come uscire da quella specie di incubo. Così mi sono deciso ad assecondare il sogno.
– L’hai voluto tu, lupo delle mie fiabe, mister Hyde di provincia, dottor Jekill dei miei coglioni. Ma chi ti credi di essere? Guarda che Fedro l’ho studiato anch’io, pezzo di merda! Beeeee, beeeee, beeeeeeee!
Belavo a squarciagola, in piedi sulla sedia ergonomica, in una delle mie più riuscite imitazioni dell’agnello da latte. Lui, il tipo, mi guardava come se stesse vedendo l’invasione degli ultracorpi. Poi ho sentito un forte dolore alla testa e sono svenuto.
Quando mi sono risvegliato, la mia collega mi stava medicando una ferita all’altezza della tempia. Il capoufficio faceva dei calcoli e discuteva al telefono con qualcuno. Il maresciallo Cadoni guardava un filmato del sistema a circuito chiuso.
-E’ lui, – stava dicendo – non c’è dubbio, stavolta ha usato il travestimento da lupo mannaro. Ma lo acciufferemo, statene certi.  Poi, rivolto a me: – come sta signor Angioni, tuu tuuuuutto bene? Cadoni è balbuziente, si sa.