dicembre 30, 2006

L’ultimo sole dell’anno. Un po’ di tepore sulle vie lastricate e i muri di pietra del quartiere.  Le tracce di sonno su una piega del viso, una sigaretta vicino alla finestra: così se ne va la mattina di fine Dicembre, da queste parti. Con un pianoforte che arriva dal soggiorno e uno sguardo sulla strada.

Un ragazzo e una ragazza passano veloci, tenendosi per mano, non pensano al tempo, si baciano, non salutano Costanza. La loro felicità non ammette distrazioni, sono pieni di esuberante entusiasmo e non guardano vicino.
Costanza è sempre lì, sulla panchina di pietra.
Forse prega. Forse ha paura di non avere più tempo per raccogliere tutta la luce che c’è, ora che l’inverno è cominciato. O forse teme che la morte le arrivi dentro casa, con l’odore di muffa alle pareti e le ultime mosche che non riesce a scacciare, ora che un altro anno se n’è andato.
O sono voci, forse ascolta le voci.

Ite bella chi ses cando su sole ti asat tebiu de maju.

Le serenate sotto il balcone, con tua madre che ti proibiva di affacciarti. E i giorni dopo, Antonio che canticchiava piano piano, in modo che solo tu lo potessi sentire, mentre spigolavi, dietro i mietitori. Qualcuno che sentì e s’accorse del tuo sguardo timido. O di quel sorriso che brillò nel suo viso abbronzato.
Una striscia di paglia sulla strada, nella notte, dalla sua porta alla tua, lo scandalo di quell’amore impossibile.
E la follia di Antonio, quando ti costrinsero ad andare via, quando girò invano per tutti i paesi, andando a cercarti nelle case dei ricchi dove si diceva che ti avevano "allogata". Prima che lo rinchiudessero, per sempre.
Forse è questo che vedi. Forse è questo che salvi, sotto il sole. Un ricordo dell’estate, il giallo di un campo. Perché lui non smetta di cercarti.

Non mi risponde, Costanza, quando più tardi le dico che sto andando a fare la spesa, che se ha bisogno di qualcosa… Mi avvicino, ripetendo che non mi costa nulla, che mi farebbe piacere rendermi utile.
Lei continua a guardare altrove, un punto che sembra lontano. Fa solo un movimento con la testa, per dirmi di no.
“Allora buon anno, Tia Costà, kin salude. E trigu”.
Accenna un sorriso e si porta l’indice al naso, chiedendomi di fare silenzio. Mi afferra a un braccio e mi costringe a sedermi accanto a lei. Il suo viso è ancora immobile. Cerco di capire la direzione del suo sguardo, dritto davanti. E’ un muro di granito, nient’altro. Poi guardo meglio e vedo una fessura, un buco fra due blocchi dove il fango si è staccato. Dentro c’è una spiga di grano.

Penso a quanto sarebbe bello, ora, bendare Costanza, farla ruotare su sé stessa e poi darle il via. A quanto sarebbe giusto guardare i suoi passi incerti, le braccia protese in avanti, alla ricerca del suo destino. “Evviva, l’ho trovato, sarà lui il mio futuro sposo!”.
Sto così, fermo con lei. A pensare al capodanno, al rito, al tempo che non riesco a interrogare. Alla strana generazione a cui appartengo, fra quei ragazzi tutti nuovi e quest’antica memoria che non mi lascia.
Sospeso , come il sole di questa mattina. Come l’anno che sta per venire.
 
Buon anno, Costanza.  Buon anno, ragazzi. Buon anno.

dicembre 28, 2006

Lassal’istare
Sa peraula ingaldigada
in sa salìa luchente
e in lavras tostorruda.

A kust’ora in sos lentolos
sa carena tott’isconza
est una pelcia iscurigada
chi s’istat a sa muda.

Su pispìsu de kie fio
sa fest’istracca
s’istaffa prima ‘e andare,
moghinded’ a s’accua.

Mudu m’app’a istare
O faeddande ‘e tene,
si keres.
De s’assentzia tua.

Lascia andare, non dirò
la parola
che ostinata pende
sulle labbra luccicando
e la saliva.

A quest’ora,
fra lenzuola e corpo sfatto
una scura cavità
si fa brusìo.
Di ciò che fui
di festa stanca
nel bicchiere della staffa.

Starò muto.
O parlerò di te, se vuoi.
Della tua assenza.

dicembre 26, 2006

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Fra tutte le fotografie, ho trovato questa in bianco e nero. Un uomo, in posa da un secolo nello studio di José Caffaro fotografia y pintura, a Buenos Aires. Incollato a un cartoncino spesso, con i bordi ritagliati in modo artistico e due angioletti nel retro che reggono una tavolozza, quest’uomo mi guarda.
Quest’uomo si chiama come me. Stesso nome, stesso cognome. Sarebbe più giusto dire che io mi chiamo come lui, perché è a lui che pensò mio padre quel giorno che andò a registrarmi. Disse a mia madre che aveva scordato quello che lei aveva scelto dal calendario e che nell’imbarazzo, di fronte alla fastidiosa impazienza  dell’impiegato comunale, aveva pronunciato il primo che gli era venuto in testa: “Giovanni, gli metta Giovanni”. Mia madre fece finta di crederci e smorzò in un sorriso quella piccola delusione, a lei Vito sarebbe piaciuto di più, e di Giovanni ce n’erano già troppi in famiglia. Ma era bello lo stesso, e il vecchio, quando gli dissero che l’avevano “pesau”, s’illuminò d’orgoglio.
Pesau vuol dire un sacco di cose, ma in determinate circostanze significa onorare, allevare, sostenere la memoria. Pesare e tramandare, col nome, un’intera esistenza.
Giovanni Maria non disse nulla, però credo che in quel momento decise di consegnarmi tutto l’affetto che gli era rimasto e di affidarmi la sua immortalità. Accese un libretto bancario al portatore e per qualche tempo mi guardò crescere. Poi, piano piano, cominciò a spegnersi e nel giro di due anni se ne andò.
Non ho niente di lui, neanche un ricordo diretto. Forse un letto alto alto dove dormiva, con una spalliera di ferro battuto, un letto che mi piaceva tanto perché sotto venivano nascoste le corbule piene di dolci fatti in casa, le castagne, le nocciole. Ma non sono sicuro, no.
Forse un pomeriggio che mi impedirono di entrare nella stanza, perché "babbai" stava ancora dormendo, ma pure quello è tutto nebuloso.

Quest’uomo è mio nonno, anche se qui ha la metà dei miei anni. E’ in Argentina, davanti a un fondale con disegni floreali, con un sigaro toscano fra le dita e un elegante cappello sulla testa che probabilmente senor Caffaro gli aveva prestato per rendere la fotografia più importante.
Nello sguardo limpido, che punta dritto l’obiettivo, posso vedere a cosa pensa.
Alla donna che aveva corteggiato prima di partire, che l’aspetterà, oh sì mi aspetterà e la sua famiglia non avrà più da ridire quando tornerò meno povero di loro.
Ai campi sterminati di Santa Fe, da dissodare insieme a migliaia di contadini italiani in cerca di fortuna nella “Merica” lontana.
Al mare sconfinato che lo separa dalla sua terra, ahi, quantomar quantomar per l’Argentina. (1)
Ai pochi risparmi che è riuscito a mettere da parte, che non è vero che le terre sono di tutti c’è un padrone anche qui, si chiama latifondista, e si guadagna poco e non so quanto resisterò con questa memoria cattiva e vicina e nessun tango mai più ci piacerà.
Forse pensa al suo amore e vuole apparire più bello in questo ritratto che sta per spedirle. Per questo ha messo l’abito buono e la cravatta. E l’orologio nella tasca del gilè.

Quest’uomo è mio nonno. Mio nonno è Charlot, con la giacca un po’stretta e i pantaloni sformati alle ginocchia: Charlot dagli occhi verdi e le mani indurite dalla terra.

Non ho niente di lui se non qualche notizia frammentaria che ho raccolto in famiglia, fra pezzi di verità e parti immaginate:
– E’ arrivato a Sunis alla fine dell’ottocento, da un altro paese, un paese distante da qui. Era ancora un ragazzino, era servo pastore e dovette seguire il padrone, un tale di Thiesi che aveva le tanche in questa zona.
– Ma no, non è così, faceva il contadino e le poche bestie che aveva erano di sua proprietà.
– Quello è dopo, quando è tornato dall’Argentina. Con i pochi risparmi aveva preso due buoi per arare la terra. Ma più tardi, con la vendita del grano, aveva comprato qualche vacca, perché il suo mestiere principale era quello di pastore.

Troppo tardi per saperne di più, ora che il tempo ha addolcito i ricordi, ora che la memoria si è fatta più buona e lontana. E serve a scaldarsi:

– Vi state sbagliando faceva il falegname, costruiva gli aratri e tutti gli attrezzi per la campagna.
– Macché, quello lo imparò dal suocero ma era un secondo lavoro, gli serviva per arrotondare. Era massaju, contadino, e fra i migliori qui a Sunis. Altrimenti come ti spieghi la storia dell’occhio cieco che aveva. Era stato un ramo di una quercia, piegato dai buoi, mentre arava, che gli era arrivato in faccia come una frusta.
– Era allevatore, vi dico. Aveva imparato da giovanissimo una tecnica per mantenere il sonno leggero. Dormiva con un sasso sotto la testa, al posto del cuscino, per mantenere l’attenzione sempre vigile contro i ladri, anche quando riposava. La dicevano tutti che gli abigeatari non avevano mai osato sfidarlo.

Quest’uomo in bianco e nero non smette di guardarmi. Mi dice che sta già pensando di tornare. Resisterò finché posso, devo fare di tutto per mettere da parte i soldi del viaggio, questo posto non fa per me. La nostalgia non si vede, ma c’è. E tanta.
Io sto bene qui, altrettanto spero di voi, ma forse torno in Italia, ahi quantomar, quantomar, mi sentite da lì.

– Era tornato dopo un anno, Giovanni Maria. Arrivò in piena notte, dopo trenta giorni di nave, e senza indugio si diresse a casa della sua fidanzata. Dormivano tutti. Bussò. Nessuno gli aprì e allora buttò giù la porta. E si prese Giuseppina, e se la sposò.

– Eja, coltivava il grano. Faceva anche il falegname, ma la famiglia la campava facendo il mezzadro. Doveva lavorare il doppio, il triplo, per mantenere la famiglia. Oltre a tuo padre c’erano altri due figli da crescere. Lavorava giorno e notte. Per fortuna i due  maschi cominciarono ad aiutarlo molto presto e per un decennio se la cavarono bene. Poi, quando sembrava che potessero mettersi in proprio, arrivò la guerra. E i figli glieli portò via la patria, a tuo nonno. Uno per sempre. Per sempre. Nel quarantadue.

Quest’uomo che mi guarda non sa della tragedia. Non lo sa perché qui ha l’età di suo figlio, ventidue. L’ultima età dell’ultimo figlio, quello inghiottito dal mare dopo il bombardamento della nave da guerra su cui si era imbarcato. Nella postura così fiera non c’è ombra del dolore che lo tormenterà fino alla fine. Non c’è posto per la morte, negli occhi così pieni di vita.

– Zio Sebastiano?
– Sì lui, il fratello di tuo padre.

Non può immaginare che i fascisti lo avrebbero arrestato per aver nascosto un po’ di grano. Per un po’ di pane da portare a quel figlio. Dal finestrino del treno che lo avrebbe allontanato per sempre, tre mesi dopo.
Non può vedere la sofferenza di sua moglie Giuseppina. Né quella di sua figlia, vedova di guerra pure lei.

– E poi l’altro zio.
– Sì, nel giro di sei mesi. Arrivò prima la notizia del figlio. Poi quella del genero.

Nello studio di José Caffaro, c’è solo la speranza. Un combattente del secolo passato; e di quello prima.
Il futuro è distante e nessuna fotografia ci basterà.

– Quando sei nato era felice come una pasqua. E quando gli abbiamo detto come ti avevamo chiamato non stava nella pelle.

Quest’uomo è il mio nome. Il mio nome ha tante storie.
Ha la stessa forma del viso, la statura minuta, l’attaccamento alla terra. Ha una traccia nei geni. L’insonnia. L’antifascismo.

(1) Da "Italiani d’argentina" I.Fossati

dicembre 22, 2006

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dicembre 20, 2006

Certe volte i pensieri ti arrivano in testa come pigne secche che cadono dall’albero. Sono assurdi, certe volte, chissà cosa li guida.
Ho pensato ai regali di natale, quest’anno dirò come sempre che non compro niente e poi comprerò qualcosa. All’improvviso ho visto una tartaruga di plastica e il pacemaker di Berlusconi.
Poi quel vecchietto di Sunis, quello delle rime coi colori, che ci rispondeva sempre a noi bambini. Tu gli dicevi nieddu e lui ti rispondeva “a cu t’occhidan a burteddu; gli gridavi viola e lui senza scomporsi “a cu ti fettan a cansola”. Se qualcuno diceva amaranto la risposta era “Fizz’e bagassa”.
In tutto questo si è infilata l’immagine del muschio per il presepe e un agnello tristissimo al mattatoio.
Non so a voi, ma a me sembra strano.

Oppure:

Eravamo al buio, riuniti in spiaggia.
A luglio, – o forse era agosto- io, Polanca e due ragazze. Nude, quasi nude.
Noi no, timidi, assorti in tanta bellezza, con la luna che era una torcia che ci illuminava.
Polanca guardava anche il cielo, ogni tanto, le stelle cadenti lassù.
“ La cometa, l’ho vista, sì sì!” esclamò, d’un tratto, felice, "è lei, ne sono  certo. Però che ci fa fuori stagione  a Tresnuraghes?"
Forse era quella birra non so, forse era troppa, perché mentre gli ridevo in faccia, tenendomi la pancia, e con cattiveria gli dicevo buon natale e cantavo gingolbèll, apparve improvvisamente un tipo con la barba bianca, un vecchio rincoglionito vestito di rosso.
"Merda ho perso la strada” ci disse.
Io lo guardai come se fosse un marziano e forse lo era.
“Sono Babbo Natale, non vedi che sono Babbo natale, che cazzo di film ti stai facendo in testa?” obiettò, offeso.
Polanca disse: “Senti, posso darti una lettera?”
“Se vuoi ma non so leggere”.
“E allora che ci fai?”.
“La immagino!”.
Così, a un certo punto, ci fece vedere anche la neve e le palle colorate. Giuro.
Se ne andò, dopo averci chiesto indicazioni per Sennariolo, doveva comprare della malvasia, disse.
Restammo per dieci minuti immersi in quella strana situazione.
Forse la luna, o il fumo troppo forte o la risacca del mare, forse fu questo a rovesciare il calendario.
Vero è che  restammo estasiati. Basiti, un po’. Oh sì.
Fu così. Magica, quella notte.
Poi le ragazze cominciarono a rotolarsi sulla sabbia. E anche noi due.  E più tardi,  sussurrando qualcosa, ci tolsero i vestiti.
Una si chiamava Brenda.

Grazie babbonatale.

dicembre 17, 2006

La vedi come scende lieve lieve
e bianco intorno al mondo il mondo resta
che il mal,  vuole coprir la santa neve.

Lo spirto mite che nuovo s’appresta
nell’aere si sente un canto che sale
un dono che vien, di fiocchi, di festa

il bene che porta a vincere il male.
Nel core avanzano pensieri buoni
e anche per me s’annunzia il Natale.

Or non mi devi spaccare i coglioni.

dicembre 15, 2006

A-E-I-O-U

Tito Maludrottu era uno che diceva: “A me questo cognome mi ha segnato la vita anche prima di nascere, la sfortuna si era già prenotata”.
Era così, mala e storta era cominciata. La madre non ce l’aveva fatta a superare un parto difficile e lui diventò orfano quando ancora si stava preparando per il debutto, nei camerini del mondo. Poi ci si mise anche il padre a rincarare la dose. Disperato, aveva cominciato a vagare per le campagne del paese, in prossimità dei ruscelli, di notte. “Cerca la moglie”, dicevano tutti, “ma deve trovare il punto giusto, dove le acque si incrociano. Perché a una certa ora le donne morte di parto vanno lì, a lavare i panni del neonato, a mondarsi la colpa. Non ci puoi parlare ma le puoi vedere, le Panas. E le puoi anche sentire, mentre cantano tristi, ninna nanna ninnaò”.
Poi, dopo un mese, anche Antonio era sparito per sempre. Sicuramente aveva voluto parlare con la morta.
Il piccolo Tito era stato allevato dalle donne del vicinato. Aveva recuperato così una parte di fortuna, con sei balie, due mamme di latte e un po’ di quel che avanzava nella povertà di Via Case Sparse.
Un giorno sentì un adulto che diceva  “Franza, a Franza mi c’ando” e quel suono gli rimase impresso, forse perché assomigliava a isperanzia. Poco tempo dopo, decise di chiedere il conto alla sorte, di presentare la cambiale all’incasso. E di nascosto partì, emigrante bambino. Ma quella, la sorte, non ne volle sapere di onorare il debito e Tito Maludrottu passò molti anni a soffrire di nostalgia e di buio. A mille metri di profondità, sotto la terra d’oltralpe, imparò che la parola chance aveva un bel suono ma non ne capì mai il significato.
“Forse devo chiederlo alle balie” si disse, molti anni più tardi. Le cercò. In paese non c’erano più.
Allora chiamò la Rai Radio Televisione Italiana. Non aspettavano altro da quelle parti, c’era una trasmissione che sembrava fatta apposta per lui. Non gli pagarono il biglietto dell’ aereo ma riuscirono a rintracciare le tate, quasi tutte, solo due di loro erano passate a miglior vita.

Nello studio 5, era tutto pronto per il grande incontro, la triste vicenda era stata ampiamente narrata, le lacrime più volte inquadrate. “La Sardegna è bellissima, arcaica mitica esotica” aveva detto la conduttrice, con un sottofondo di canti a tenores, “che belle immagini!”
Infine avevano sollevato lentamente una parete di polistirolo, la metafora degli ostacoli che la vita ci riserva.

Tito: mamme, voi, tutte qui!
Tate: Tito, tu!

tatetitotù tatetitotù tatetitotù….

Gianfilippo Mastino aveva un cane dal pelo corto che amava più di ogni altra cosa al mondo. Pippo, il bastardino, era diventato per lui il vero motivo di vita. Lo trattava come se fosse un cristiano, anzi meglio di un cristiano, gli comprava tutte le pappe più buone: Baubon, Cinoghiott, Arfgnam, Fidobel. Un giorno però, dopo aver vuotato la ciotola, Pippo cominciò a guaire e vomitò per tutta la casa. Preoccupato, Gianfilippo chiamò subito il veterinario.
“Cosa ha mangiato?”, chiese il medico.
“Arfgnambonbon”, rispose Gianfilippo.
“E’ quello”, sentenziò il dottore.
Mastino non ci vide più. Prese una scatola dell’ultimo ritrovato della scienza di alimentazione canina e si diresse al negozio dove l’aveva acquistato. “Voglio parlare col direttore” disse, con un tono deciso. Si presentò Ginetto Mussibbello, il responsabile delle vendite. “No guardi, non è possibile, tutti i nostri prodotti sono stati clinicamente testati, l’azienda che ce li fornisce li sperimenta per anni in laboratorio, prima di immetterli sul mercato”.
Gianfilippo lo lasciò parlare, senza dire niente. Poi, con fare teatrale, tirò lentamente la linguetta metallica e infilò due dita dentro la lattina che teneva stretta nell’altra mano. Ne cavò fuori una piccola porzione di sbobba rossiccia e se la portò alla bocca. Masticò, in silenzio, per qualche secondo, guardando negli occhi l’esterrefatto Mussibbello. Poi gonfiò le gote come uno che suona le launeddas e, con forza, sputò in faccia al suo interlocutore. Correndo fra gli scaffali del Dogcenter, cominciò ad abbaiare, con tutta la rabbia che aveva in corpo.
Infine urlò: Pappe Pippo? Puh! Pappe pippo pù, pappeppippoppù.

Enrico Mirapinto era un critico d’arte incazzato col mondo. Col mondo dell’arte, diciamo.
Sosteneva che dopo il Rinascimento tutto quello che era stato fatto non aveva alcun valore: “meglio non parlarne” diceva. E infatti non ne parlava mai, non scriveva mai una riga. “Dài Chicco, dicci cosa ne pensi” gli chiedevano all’uscita delle mostre. Lui niente, si chiudeva a riccio, lasciava solo intravedere una certa disapprovazione, increspando le labbra. Oppure diceva: “meglio non parlarne”.
Un giorno, un giovane e promettente pittore d’avanguardia, stanco della supponenza dell’anziano studioso, scrisse una lettera aperta al quotidiano della città: “…ma chi sarà mai questo Chicco Mirapinto? Forse un vecchio trombone dai pistoni ossidati, un passatista passato. Gli unici quadri di cui può parlare sono quelli elettrici, ma è meglio che non lo faccia, se non vogliamo rimanere al buio. Meglio che non produca niente, il nostro profeta, che le sue idee potrebbero ammorbarci, con quell’odore di muffa. Del nuovo abbiamo bisogno, non dello stantio”.
Enrico Mirapinto lasciò passare qualche giorno, poi, sempre a mezzo stampa, rispose così:
“Illuminanti davvero le parole del giovane artista. Per alcuni giorni ho osservato le mie produzioni, quelle che mi vanto di fare regolarmente ogni mattina. Ebbene, mi sono accorto che hanno una forma, un’estetica potenziale, qualcosa che potrebbe ricordare il principio di un Quadro. Molto meglio di quello che mi capita di vedere negli ultimi tempi. Peccato non avere la sfrontatezza di certi piccoli imbrattatori di tele. Peccato, perché anche io avrei potuto allestire una mostra. Avrei pensato pure al titolo della mia personale:  Cacche Chicco Q”

kakekikokù kakekikokù…

Giovannino Toccaferro, l’uomo più alto del mondo (chissà poi perché gli avevano dato quel diminutivo) stava per arrivare nella cittadina della Barbagia per dar vita allo spettacolo più coinvolgente del secolo. Il gigante del nord, alto due metri e quaranta, con le sette donne più piccole della terra, stavano per esibirsi nella piazza del mercato. Uno slogan aveva cominciato a circolare: Nane e Nino (Nu). Manifesti colorati,  locandine nei bar, un passaparola incessante: nane e nino nu.  L’attesa era grande, il sindaco in persona aveva annunciato il grande evento: “Vedrete un uomo capace di reggere due donne sul palmo della mano, ballerine che danzano il can can sulle sue spalle possenti, ginnaste che fanno la sbarra sul suo…eeehm, no scusate. Cosa ha scritto qui, signor segretario? Avevamo detto che questo non deve farlo, allo spettacolo ho invitato anche il parroco, siamo vicini al santo Natale”.
Naneninonù, naneninonù, urlava per le strade il ragazzo con la divisa rossa e il berretto da postino.
La voce dello strillone era arrivata ovunque, anche nelle stradine più interne del quartiere contadino.
E tutti, proprio tutti, non vedevano l’ora che arrivasse la sera del dodici Dicembre del 1899.
Ma di quella serata e di come andò lo spettacolo vi racconterò un’altra volta, se ne avrò voglia.

E un’altra volta ancora, se le forze me lo consentiranno e se non mi scapperà da ridere, vi dirò di quel dirigente televisivo che si faceva pere di auditel. Era stato per sei mesi in un centro di disintossicazione, Amerigo Arcibaldi, ma dopo due giorni era rientrato nel tunnel. “La cultura si può fare, ma è meglio se la fanno le belle donne” era il suo motto. “Avete visto come due belle gambe facciano più ascolto dei libri, non voglio intellettuali fra le balle. Datemi delle tette e conquisterò il mondo. Al limite, chiamate la modella tunisina, quella intelligente, così accontentiamo tutti e la critica la pianterà di frantumarci i maroni. Nooo, che teatro? Basterà un fischio della conduttrice, per far sparire il nostro Nobel! Ahahah, che se fa Afef fiii, Fo fu”. Fafefifofù, se ne andava fischiettando, il commendatore Arcibaldi. Fafefifofù fafefifofù…

dicembre 6, 2006

Topolonia e Shakespeare, secondo Polanca

Che relazione c’è fra la commissione Mitrokhin e il teatro elisabettiano? Nessuna, direte voi, miei piccoli lettori. O la stessa che c’è fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima, come direbbe il grande Achille Campanile.
Non la pensa così l’attento Polanca. Non lo so, forse ha fumato qualche roba strana o forse mi è caduto di nuovo in depressione. Ha cominciato a costruire delle associazioni di idee così stravaganti che neppure nelle sedute di psicoanalisi vi potrà capitare di sentire.

“Se proprio devi citare Achille Campanile, dovresti raccontare di quella vedova che si recava tutti i giorni alla tomba del marito e che trovarono morta proprio lì, sulla tomba. L’aveva intitolato Tanto va la gatta al lardo, quel racconto” dice, serio serio. “ Perché anche stavolta è una storia di ripetizioni e di contrappassi”
“ Si può sapere di che diavolo stai parlando?”
“Di spie e di veleni. E di topi”
“Sì, Topolonia, tu leggi troppi fumetti.”
“No, quella era Topolinia. Ma questa non è male, stai imparando, finalmente”
“Ne hai per molto?”
“Ce l’hai una copia dell’Amleto?
“Eeh?”
“Beh, dobbiamo partire da lì, dal personaggio di Polonio. Ti ricordi no, il padre di Ofelia, il ciambellano di corte. Quello che stava sempre a suggerire intrighi. O a fare la spia dietro le tende. Ti ricordi come finisce, quando Amleto lo uccide per sbaglio? Prendi il terzo atto, la scena quarta. Leggi le battute”
Leggo.
Amleto (sfoderando la spada) : Che c’è? Un topo? E’ morto! Un ducato, che è morto! (colpisce la tenda con la spada)
Polonio (da dentro) : Ah! Mi hanno ucciso!

Comincia a ridere, Polanca. E mi fa: “Pensa se Polonio avesse risposto “No, fermo, non sono un topo, sono un isotopo” Insomma, possibile che non ti accorga della stranezza? Spie, topi e veleni. E’ tutto collegato. E’ come se il personaggio di Shakespeare volesse emendarsi. Da spia diventa veleno mortale per le spie. Che fanno la fine dei topi”
“Tu sei fuori, Polà, Devi farti vedere da qualcuno”
“Sarò pure fuori ma non è colpa mia se la lingua italiana è piena di tranelli. Mi metto nei panni di quel povero critico teatrale che in una recensione potrebbe scrivere: L’attore che interpreta l’alto dignitario viene fuori alla distanza, brillante, nel terzo atto. Polonio contenuto nel secondo. E nel primo piatto”

Mi arrendo.